Le ombre sono oramai lunghe, il
maltempo limita la visibilità: a stento si intravedono le luci nei
palazzi, sicché io e Fedor riusciamo a strisciare giù dalla riva
non visti. Intanto, sentiamo il maggiore Azi, scortato da un
plotoncino, richiedere a gran voce un colloquio col capo degli
ucraini: gli viene concesso.
Mentre tutte le attenzioni sono
focalizzate su di lui, io e Fedor avanziamo come tigri siberiane
sulle scoscese ed infide rive del fiume, sempre al riparo dagli
sguardi. Una delle grandi risorse della Rivoluzione è il collettivo:
se un compagno si trova in difficoltà e non riesce nel suo intento,
ve ne è sempre un altro, lieto di portare a termine il suo compito.
Quel che conta, è il risultato di tutti: non ci sono invidie, solo
amore per il bene comune. E così, quando uno fra me e Fedor (non
importa chi) scivola, cade, si ferisce, l’altro è ancora sano e
riesce a continuare la missione. Il ferito, consapevole di essere ora
un peso, lo lascia andare, e il sano striscia sotto il ponte,
individua i fili che collegano le mine, li recide nei punti giusti.
Nel frattempo, di sopra prendono tempo,
ma qualcosa deve andare storto. Abbiamo finito il nostro lavoro
sotto, stiamo per tornare di sopra, quando notiamo un movimento:
Fedor mi dice che qualcuno degli ucraini è sotto il ponte,
dall’altra parte, si deve essere accorto di qualcosa. Un colpo
parte dalla canna del carro armato, colpisce il palazzo, lo fa
crollare. Sentiamo urla, spari. Gli ucraini hanno un cannone
anticarro, ma due precisi colpi di Ludmilla e di Vasilij freddano i
due uomini che lo stanno utilizzando prima che possano prendere la
mira. Avanziamo col carro, con i soldati, con i camion sopra il ponte
oramai sicuro e prendiamo, senza colpo ferire, le macerie del
palazzo, dove troviamo i cadaveri di nove ucraini.
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